29 novembre - Giornata ONU di solidarietà con la Palestina
La ricorrenza del 29 novembre: le origini
Nel 1977 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 29 novembre Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese. Questa data ricorda l’approvazione della Risoluzione 181 dell’ONU, avvenuta il 29 novembre del 1947, che ufficializzò il Piano di partizione della Palestina elaborato dal Comitato Speciale sulla Palestina (UNSCOP). Il Piano prevedeva l’istituzione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo in Palestina, con Gerusalemme e le aree circostanti, tra cui Betlemme, come corpus separatum sotto un regime internazionale speciale. È noto a tutti che -appena un anno dopo- venne creato lo Stato di Israele, ed è altrettanto risaputo che, a distanza di oltre 70 anni, dello Stato di Palestina non vi è ancora traccia.
Quello che è forse meno lampante è che la Risoluzione 181 ha rappresentato uno spartiacque storico che ha comportato l’affermazione della soluzione “a due Stati” nel consesso internazionale e il conseguente progressivo oblìo della possibilità di creazione di un unico Stato di tipo federale e binazionale, come in discussione già nella versione del 1939 del Libro Bianco del Mandato Britannico.
Per ben contestualizzare l’ideazione, lo sviluppo e le implicazioni del Piano di partizione sarebbe necessaria una disamina storica, qui impossibile da riportare, dei complessi anni precedenti alla fondazione dello Stato di Israele. È bene evidenziare, comunque, alcuni degli aspetti che hanno fortemente influenzato il corso degli eventi, tra cui:
le sistematiche e pianificate violenze terroristiche dei gruppi paramilitari sionisti come la Banda Stern e l’Irgun, volte ad influenzare attraverso attacchi ai civili palestinesi e all’esercito coloniale britannico le dinamiche sul terreno e le negoziazioni con il governo britannico;
il massimalismo, le divisioni e le lotte intestine della leadership palestinese e araba che, reduce dagli sforzi delle grandi rivolte anticoloniali degli anni ’30, faticò a gestire i compromessi del processo negoziale e ad arginare la repressione congiunta da parte di sionisti e britannici;
le fortissime pressioni politiche filosioniste nello svolgimento della discussione in seno all’ONU e all’UNSCOP nell’immediato dopoguerra, che videro l’attuazione di veri e propri ricatti e minacce di cancellazione degli aiuti post-bellici alle nazioni che non avessero appoggiato la Risoluzione 181 e il Piano di partizione. Le pressioni arrivavano in particolare dagli Stati Uniti e ne sono state vittime numerosi paesi, tra cui la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi e molti Stati extraeuropei.
Il principio di fondo della Risoluzione, in ogni caso, metteva sullo stesso piano gli interessi della popolazione palestinese e quelli del movimento sionista, o meglio esprimeva di fatto la preminenza di questi ultimi sul diritto dei palestinesi a possedere e gestire le proprie terre. La divisione del territorio avvenne dall’alto, senza investire ulteriormente -dopo i fallimenti inglesi- sul processo negoziale riguardante l’immigrazione ebraica in Palestina.
Va detto oltretutto che lo Stato ebraico proposto dalla Risoluzione 181 era sensibilmente più ampio di quello arabo in rapporto alla popolazione: mentre la comunità ebraica storica e di recente immigrazione ammontava a circa un terzo della popolazione totale in Palestina, la superficie assegnata al futuro Stato ebraico arrivava a comprendere il 56% delle terre disponibili. Essa, tra l’altro, includeva larga parte delle risorse idriche, dei terreni agricoli e delle zone industriali della Palestina storica. Non possono stupire, dunque, le reticenze all’accettazione della Risoluzione dell’allora leadership palestinese.
Il 29 novembre oggi: quale significato?
Abbiamo a grandi linee analizzato la genesi della soluzione a due Stati. Come rileggere e ricontestualizzare oggi, dunque, questa giornata? Tutti sappiamo che la situazione israelo-palestinese oggi è fortemente sclerotizzata. L’occupazione (con la presenza ormai consolidata di circa 450mila coloni in Cisgiordania) e la deriva etnicista di Israele, che ad oggi ha tutte le caratteristiche di un regime di apartheid, appaiono ostacoli insormontabili per qualsiasi processo di pace. Lo stato di guerra permanente è diventato il perno della governance israeliana, a livello interno e internazionale, e per motivi demografici, economici e ideologici è impossibile che lo Stato sionista rimetta in discussione le proprie politiche e i propri confini, da solo o a seguito del riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina.
Ben venga il 29 novembre, dunque, come giornata che ricordi alla comunità internazionale che la questione della Palestina è ancora irrisolta e che il popolo palestinese deve poter godere di quei diritti inalienabili che l’Assemblea Generale dell’ONU ha definito: il diritto all’autodeterminazione senza interferenze esterne, il diritto all’indipendenza e alla sovranità nazionale, e il diritto a fare ritorno alle case e proprietà che i palestinesi hanno dovuto abbandonare. Ma non sono forse le basi della questione israelo-palestinese, dalla fondazione di Israele agli accordi di Oslo passando per la Risoluzione 181, che andrebbero rimesse in discussione visti i fallimenti degli ultimi decenni? E ancora: quale legittimità agli occhi dei loro cittadini possono ancora vantare la classe dirigente palestinese, bloccata nella melma della corruzione, dell’inazione e del collaborazionismo, e quella israeliana, che fa spregio di qualsiasi legge e principio internazionale?
Nessuna ricetta ripescata dal passato o calata dall’alto potrà mai adattarsi ad una situazione dove nell’intimo delle coscienze è stata interiorizzata la lenta agonia del popolo palestinese sotto gli occhi della comunità internazionale, saltuariamente interrotta dalla brutale repressione israeliana della resistenza non violenta o da quale sporadico e controproducente episodio di resistenza armata.
Per uscire da uno stallo che dura da più di mezzo secolo, con enorme sofferenza di occupati e occupanti, è necessario un piano di azione che coinvolga nel profondo i due popoli coinvolti, nell’ottica della giustizia, della rielaborazione e della risoluzione dei conflitti: per il futuro della terra di Palestina-Israele è fondamentale il coinvolgimento della società civile, dei giovani e di chi vorrà costruire una pace giusta.
Noi, comunità solidali internazionali, dobbiamo senza esitazione schierarci al fianco di chi, palestinese e israeliano, nutre ancora speranza. È nostro dovere morale alimentare questa speranza, senza cadere nelle trappole della realpolitik e dei formalismi internazionali. Si può farlo rivendicando semplicemente il rispetto dei diritti umani, isolando qualsiasi regime autocratico e sostenendo i tentativi dal basso di liberarsi dal giogo del conflitto, con strategie ed energie innovative. Perché solo un processo di autodeterminazione del tutto rivoluzionario potrà arrivare a liberare popoli oppressi dai fardelli della storia.