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Nakba, 74 anni dopo

16/5/2022

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Anche quest’anno, come in un fenomeno carsico, il conflitto israelo-palestinese è riemerso nelle cronache e sugli schermi dei mezzi d’informazione a seguito di un mix esplosivo di fattori detonanti che hanno accompagnato le settimane in cui si sono affastellati il mese sacro del Ramadan, la Pasqua ebraica e quelle cristiane e poi ancora il 74° anniversario della Nakba, il 15 maggio.

Ancora una volta le tensioni interne al governo e alla società israeliane sono state espiate intensificando l’oppressione del popolo palestinese, con mesi di soprusi, demolizioni e sequestri di case, incursioni militari nei territori occupati e arresti. In occasione del mese di digiuno e preghiera le autorità israeliane hanno di nuovo scelto di umiliare non solo i palestinesi ma l’intera comunità islamica che si raccoglie intorno alla moschea di al-Aqsa, picchiando e lanciando lacrimogeni fin dentro i luoghi sacri mentre impedivano arbitrariamente l’accesso ai fedeli con la complicità dei gruppi ultranazionalisti ebraici che marciavano sulla spianata delle moschee.
Ciò ha innescato una escalation di reazioni e violenze che purtroppo sono arrivate a prendere anche la forma di omicidi e attacchi da parte di persone isolate ai danni della popolazione israeliana. In questi attacchi si legge tutta la tragicità della situazione. La frustrazione di una popolazione soggiogata e brutalizzata si incanala e distilla in alcuni gesti estremi nei quali la violenza omicida e suicida -distruttiva e autodistruttiva- appare sempre più come un disperato tentativo di fuga da una situazione senza via d’uscita che come un percorso di lotta.
In effetti molto ci sarebbe da riflettere sulla cosiddetta agency dei palestinesi, sulla loro possibilità di agire negata tanto nei fatti dalle forze di occupazione quanto nell’immaginario dalle narrazioni occidentali, che relegano gli oppressi a comparse prive di coscienza e volontà collettiva, ignorando o non comprendendo affatto i movimenti sociali popolari e generazionali in corso. Ne ha parlato in maniera stimolante la dottoranda Tamara Taher in un saggio pubblicato su Orient XXI, spiegando che anche la retorica della resilienza può contribuire ad indebolire la lotta all’autodeterminazione del popolo palestinese. 

La condotta di Israele, seppur parte di un consolidato meccanismo denunciato da innumerevoli report internazionali, tra cui l’ultimo di Amnesty International, si è svelata agli occhi del mondo intero in seguito all’assassinio della reporter Shireen Abu Akleh, icona del giornalismo palestinese. Il dolore per l’uccisione dell’inviata che documentava un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin è stato se possibile reso ancor più insopportabile dalle menzogne e manipolazioni che tutti i livelli delle istituzioni civili e militari israeliane hanno cercato di diffondere per non riconoscere le proprie responsabilità, per arrivare poi al culmine con le immagini oscene delle cariche al corteo funebre e delle granate stordenti lanciate in direzione della bara. 

È evidente che le disumanizzanti politiche di occupazione hanno in parte raggiunto l’obiettivo. Le forze armate e una parte della società israeliana non riconoscono ai palestinesi nemmeno il diritto e la minima, ancestrale dignità umana di celebrare un funerale. La paura e la diffidenza reciproca delle due comunità non possono che aumentare, e gli unici a beneficiarne sono gli apparati che prosperano nella dimensione di guerra permanente.

​A maggior ragione in un momento come questo è necessario rafforzare la nostra solidarietà, dimostrando ai palestinesi che la loro dignità è anche la nostra dignità, e che difenderla è una questione morale che riguarda anche noi. Allo stesso tempo occorre ascoltare e amplificare la voce di quegli israeliani e di quegli ebrei che non si riconoscono in questa spirale pericolosa e degradante e nelle politiche di apartheid. I nostri sforzi di pace e di giustizia, in tempi in cui la guerra si manifesta in forme e intensità che non avremmo immaginato, devono essere più forti ed estesi che mai. E lo sforzo non può prescindere il lavoro interiore e politico di decolonizzazione del nostro stesso sguardo.

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