Mozione comunale per il cessate il fuoco a Gaza e per una pace giusta in Israele-Palestina12/11/2023 Per reagire ad uno dei momenti più drammatici della storia palestinese vogliamo condividere uno strumento concreto, scritto da noi in collaborazione con il Forum trentino per la pace e i diritti umani, che possa dare a chiunque la possibilità di attivarsi nei propri territori: il testo di una mozione di solidarietà, per il cessate il fuoco a Gaza e per una pace giusta in Israele-Palestina. Condividetela, riadattatela al vostro contesto e proponetela ai vostri consiglieri comunali, provinciali o regionali. Che tacciano le armi!
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Anche quest’anno, come in un fenomeno carsico, il conflitto israelo-palestinese è riemerso nelle cronache e sugli schermi dei mezzi d’informazione a seguito di un mix esplosivo di fattori detonanti che hanno accompagnato le settimane in cui si sono affastellati il mese sacro del Ramadan, la Pasqua ebraica e quelle cristiane e poi ancora il 74° anniversario della Nakba, il 15 maggio.
Ancora una volta le tensioni interne al governo e alla società israeliane sono state espiate intensificando l’oppressione del popolo palestinese, con mesi di soprusi, demolizioni e sequestri di case, incursioni militari nei territori occupati e arresti. In occasione del mese di digiuno e preghiera le autorità israeliane hanno di nuovo scelto di umiliare non solo i palestinesi ma l’intera comunità islamica che si raccoglie intorno alla moschea di al-Aqsa, picchiando e lanciando lacrimogeni fin dentro i luoghi sacri mentre impedivano arbitrariamente l’accesso ai fedeli con la complicità dei gruppi ultranazionalisti ebraici che marciavano sulla spianata delle moschee. Ciò ha innescato una escalation di reazioni e violenze che purtroppo sono arrivate a prendere anche la forma di omicidi e attacchi da parte di persone isolate ai danni della popolazione israeliana. In questi attacchi si legge tutta la tragicità della situazione. La frustrazione di una popolazione soggiogata e brutalizzata si incanala e distilla in alcuni gesti estremi nei quali la violenza omicida e suicida -distruttiva e autodistruttiva- appare sempre più come un disperato tentativo di fuga da una situazione senza via d’uscita che come un percorso di lotta. In effetti molto ci sarebbe da riflettere sulla cosiddetta agency dei palestinesi, sulla loro possibilità di agire negata tanto nei fatti dalle forze di occupazione quanto nell’immaginario dalle narrazioni occidentali, che relegano gli oppressi a comparse prive di coscienza e volontà collettiva, ignorando o non comprendendo affatto i movimenti sociali popolari e generazionali in corso. Ne ha parlato in maniera stimolante la dottoranda Tamara Taher in un saggio pubblicato su Orient XXI, spiegando che anche la retorica della resilienza può contribuire ad indebolire la lotta all’autodeterminazione del popolo palestinese. La condotta di Israele, seppur parte di un consolidato meccanismo denunciato da innumerevoli report internazionali, tra cui l’ultimo di Amnesty International, si è svelata agli occhi del mondo intero in seguito all’assassinio della reporter Shireen Abu Akleh, icona del giornalismo palestinese. Il dolore per l’uccisione dell’inviata che documentava un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin è stato se possibile reso ancor più insopportabile dalle menzogne e manipolazioni che tutti i livelli delle istituzioni civili e militari israeliane hanno cercato di diffondere per non riconoscere le proprie responsabilità, per arrivare poi al culmine con le immagini oscene delle cariche al corteo funebre e delle granate stordenti lanciate in direzione della bara. È evidente che le disumanizzanti politiche di occupazione hanno in parte raggiunto l’obiettivo. Le forze armate e una parte della società israeliana non riconoscono ai palestinesi nemmeno il diritto e la minima, ancestrale dignità umana di celebrare un funerale. La paura e la diffidenza reciproca delle due comunità non possono che aumentare, e gli unici a beneficiarne sono gli apparati che prosperano nella dimensione di guerra permanente. A maggior ragione in un momento come questo è necessario rafforzare la nostra solidarietà, dimostrando ai palestinesi che la loro dignità è anche la nostra dignità, e che difenderla è una questione morale che riguarda anche noi. Allo stesso tempo occorre ascoltare e amplificare la voce di quegli israeliani e di quegli ebrei che non si riconoscono in questa spirale pericolosa e degradante e nelle politiche di apartheid. I nostri sforzi di pace e di giustizia, in tempi in cui la guerra si manifesta in forme e intensità che non avremmo immaginato, devono essere più forti ed estesi che mai. E lo sforzo non può prescindere il lavoro interiore e politico di decolonizzazione del nostro stesso sguardo. Come Pace per Gerusalemme stiamo portando avanti un progetto al quale teniamo moltissimo. Si tratta di una raccolta fondi per il teatro e centro giovanile di Beit Ummar, un piccolo villaggio a nord di Hebron, in una delle zone più calde dei Territori palestinesi occupati. Abbiamo conosciuto Bessan e Mousa, responsabili del Centre for Freedom and Justice (CFJ), associazione impegnata nella creazione di questo piccolo angolo di serenità e cultura per i giovani della zona. I progetti che portano avanti sono entusiasmanti e abbiamo deciso di sostenerli. Ecco il video della serata di presentazione del progetto che abbiamo organizzato. Ospite d'eccezione, oltre a Mousa Abu Maria, fondatore del Center for Freedom and Justice, anche Michael Davis, rabbino pacifista residente a Chicago, che ha condiviso con noi le sue esperienze di attivista per la pace e i diritti umani. Buona visione! CLICCA QUI Eitan Bronstein Aparicio è un attivista, educatore e filosofo israeliano. Ha fondato l’ONG Zochrot e successivamente il progetto artistico-politico De-colonizer. Attualmente vive a Bruxelles con la moglie e il figlio. Lo abbiamo intervistato sulla situazione dell'attivismo pacifista israeliano contrario all'occupazione. D: Sembra che nella società israeliana le speranze di invertire la rotta politica si stiano dissolvendo: se è vero che le difficoltà economiche dovute alla pandemia hanno stimolato alcune proteste antigovernative, dall’altro lato il dibattito politico sulla pace e sull’occupazione langue, e molti attivisti pacifisti israeliani, tra cui te e la tua famiglia, hanno lasciato o stanno lasciando Israele. Puoi darci la tua impressione? R: Per rispondere a questa domanda devo parlare di diversi aspetti: il primo è un fenomeno sociologico, ovvero il sentimento diffuso di disillusione e disperazione che c'è ora in Israele. Negli ultimi decenni, praticamente da quando Bibi Netanyahu è al potere e in particolare negli scorsi 5-10 anni, la maggior parte della società israeliana ha iniziato a non credere più che si possa arrivare alla pace. Prima, quando un bambino nasceva, si augurava alla famiglia che non sarebbe andato a fare la leva militare perché non ce ne sarebbe stato più bisogno, ma ora questa frase non la pensa né dice più nessuno. Ora il pensiero comune è diventato: “questa terra è tutta nostra, gli arabi non ci possono stare e se la guerra è il prezzo da pagare lo pagheremo”. Al contempo, nella parte di società israeliana che crede che lo Stato dovrebbe essere per tutti, ebrei e palestinesi con uguali diritti, la speranza è ai minimi storici e nessuno ha fiducia che la situazione possa cambiare e migliorare. Guardiamo alle ultime elezioni per i cittadini israeliani [del marzo 2020, ndr]: non c’era un programma politico che promuovesse un’agenda sul futuro (giustizia sociale, accordi di pace, etc), il dibattito era sull’avere o non avere Bibi al governo. L'opposizione e il governo hanno più o meno lo stesso programma, non c'è una vera differenza tra la destra e quella che viene chiamata sinistra in Israele, infatti Benny Gantz ha alla fine accettato di costituire un governo di unità nazionale [che sarebbe dovuto decadere a ottobre 2020 lasciando il posto alla presidenza di Gantz, ndr]. Il partito arabo è in crescita, ma è marginalizzato e nessuno prende nemmeno in considerazione la possibilità di allearsi con questa coalizione. Io personalmente ho deciso di trasferirmi a Bruxelles per seguire mia moglie e il nostro bambino, perché vivere in Israele per 7 anni con la mia famiglia è stato difficile dal punto di vista politico, economico, ideologico. Per quello che mi riguarda ho lasciato fisicamente Israele ma continuo a seguire le cause in forme diverse, lavorando e impegnandomi ogni giorno su questa questione. Devo ammettere però che molte delle persone come noi, che non credono in uno Stato ebraico, hanno la sensazione di essere state sconfitte. L'idea stessa di poter vivere insieme ai palestinesi in Israele è stata sconfitta. Non crediamo più che questa situazione possa essere cambiata da dentro Israele: ad un certo punto l’idea dello Stato ebraico cadrà, ma non sarà grazie ad attivisti israeliani o palestinesi, bensì con una pressione dall’esterno. D: Hai parlato di pressioni esterne: in che modo suggerisci di tenere acceso il dibattito internazionale sulla Palestina anche all'interno delle nostre società, tra le persone? R: Credo che sia molto importante ogni lavoro fatto fuori Israele, rivolto alle istituzioni e alle persone -al governo italiano e al popolo italiano, per esempio- per alzare l'attenzione sulla situazione della colonizzazione della Palestina. So che purtroppo è difficile: la questione non è nell'agenda internazionale e non è facile portare l'attenzione dei media internazionali su questo argomento. Ma credo che ci siano ancora cose che le persone possono fare, soprattutto a partire dalle associazioni attive sui territori. La campagna del BDS, ad esempio, è molto importante. Credo che il BDS sia cruciale: dal punto di vista politico è la giusta via da perseguire per fare pressione su Israele dall'esterno, e abbiamo visto che è molto efficace. In Israele hanno dedicato un intero ministero [il Ministero degli Affari Strategici, ndr] con cospicui finanziamenti a combattere il BDS: il governo lo ritiene una minaccia notevole. Un altro aspetto importante è l'aspetto educativo e di sensibilizzazione delle campagne internazionali, che si dovrebbero basare su tre elementi fondamentali:
D: Qual è il ruolo dell'Unione Europea? Queste campagne popolari potrebbero far pressione sull’UE per cambiare la situazione? R: Sicuramente! Facendo pressione sull'UE, poi questa dovrà chiedere a Israele di rendere conto delle sue azioni, pena l’indebolimento o la cancellazione degli accordi economici. Abbiamo visto che le prese di posizione e le richieste europee sull’annessione hanno avuto un certo impatto sul governo israeliano. Inoltre, anche la Corte Penale Internazionale [oggetto di sanzioni da parte dell’amministrazione Trump, ndr] dovrebbe essere rafforzata, per poter processare i criminali di guerra israeliani. Le istituzioni internazionali che sono state attaccate e indebolite negli ultimi anni dovrebbero essere sostenute dall’Europa e a livello popolare, per poter agire. D: Negli scorsi mesi abbiamo visto alcune manifestazioni contro il piano di annessione di Trump. Ma cosa pensa la società israeliana di questo piano? R: Credo che la maggior parte degli israeliani non sia interessata alla questione. Bibi e i coloni lo sono, mentre le persone in generale pensano che sia semplicemente un regalo da parte di Trump. Io personalmente fin dall'inizio ho pensato che sarebbe stato un piano difficile da portare fino in fondo, e infatti la direzione è quella di attuare qualcosa di simbolico per confermare lo status quo dell’occupazione: fare degli statement, diffondere delle foto mentre in realtà continuano poco a poco le operazioni di demolizione delle case e di espulsione dei palestinesi. Cambiare sostanzialmente la situazione sul campo annettendo tutti i territori in una volta costerebbe troppo a Israele, senza contare che c'è un'opposizione abbastanza forte al piano anche da parte dell'estrema destra israeliana, e questo è problematico per il governo in termini di sostegno elettorale. I coloni infatti contestano il fatto che verrebbe annessa solo una parte della Cisgiordania e non tutta, o almeno non tutte le colonie. D: Una grande questione che è stata portata alla luce dal piano di annessione è quella relativa alla cittadinanza. R: Purtroppo a livello sociale e politico i palestinesi non sono più minimamente considerati come detentori di diritti di cittadinanza. Nell'area che dovrebbe essere annessa vivono decine di migliaia di palestinesi e Netanyahu ha già sottolineato che in caso di annessione essi non acquisiranno diritti da cittadini dello Stato d'Israele. Questo è stato dichiarato apertamente, ed è una dichiarazione da regime di apartheid. Chiaramente l'idea è quella di costringerli a lasciare le loro terre. Ci sono già piani per rimuovere i palestinesi dalle colline sud di Hebron e dalla Valle del Giordano, come testimoniano le demolizioni più vaste degli ultimi decenni, avvenute recentemente a Khirbet Hamsa al-Fawqa con la distruzione di più di 70 strutture e l’espulsione di 11 famiglie con 41 bambini. L'Europa non si faccia da parte: Lettera aperta di Pace per Gerusalemme e del Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani Il 2020 verrà di certo ricordato come un anno sconvolgente, un punto di non ritorno che ha fatto prendere coscienza all’umanità dei propri limiti e delle proprie fragilità. Per alcuni, però, quest’anno potrebbe simboleggiare una catastrofe nella catastrofe: stiamo parlando, tra gli altri, del popolo palestinese, che in una situazione di privazione di diritti e di occupazione militare che perdura da 72 anni -ovvero dal 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele- è stato costretto a fronteggiare allo stesso tempo la crisi sanitaria dovuta al coronavirus e l’annuncio dell’avvio del nuovo piano di annessione dei territori occupati. Il piano, i lettori lo ricorderanno, è il culmine del lungo sodalizio politico tra il presidente israeliano Netanyahu e il suo omologo statunitense Trump, che ne ha scritto e sponsorizzato la prima versione. Non è solo lo stile e l’ideologia ad accomunare i due personaggi, ma anche la tendenza a gestire crisi politiche interne (le lunghissime crisi di governo e i processi per corruzione di Netanyahu, le imminenti elezioni statunitensi e via dicendo) attraverso iniziative muscolari che creano consenso - o dibattito- immediati ma che a lungo andare si potrebbero rivelare estremamente destabilizzanti. È così che il mondo attende, il primo luglio prossimo, il voto della Knesset, il parlamento israeliano, sulla proposta governativa di annettere unilateralmente circa il 30% della Cisgiordania. Attualmente, lo ricordiamo, a seguito degli Accordi di Oslo del 1993 la West Bank è divisa in aree a diversi gradi di controllo politico-amministrativo palestinese o israeliano. Dalle diverse mappe degli scenari di annessione che sono circolate in questi mesi emerge il rischio dell’ufficializzazione di uno status quo già di fatto esistente, ma molto lontano da quanto stabilito dal diritto internazionale e da quanto dovrebbe prevedere una reale soluzione di pace. Con il pretesto di collegare e annettere le numerose colonie illegali israeliane presenti in Cisgiordania, che contano circa 450mila abitanti, si andrebbe a normalizzare definitivamente la geografia a macchia di leopardo della Palestina, creando veri e propri bantustan: piccole enclave -città o municipalità palestinesi - militarizzate e circondate dal muro di separazione, all’interno delle quali vivrebbero persone senza diritto di cittadinanza né libertà di movimento. Sono già oggi più di 500 i checkpoint militari israeliani che ostacolano la libera circolazione dei palestinesi nel territorio assegnato loro dalle Nazioni Unite, inficiandone il diritto all’istruzione e al lavoro. Oltre all’appropriazione di terre, acqua e risorse naturali, preoccupa ancor di più il principio secondo il quale il governo israeliano intende annettere dei territori selezionando i cittadini che vi vivono secondo una gerarchia etnica. Sono circa 65mila, ad esempio, i palestinesi residenti solo nella Valle del Giordano, ma qualora essa venisse annessa ad Israele è già stato dichiarato che nessun tipo di diritto di cittadinanza sarebbe loro concessa. Uno Stato che controlla territori annessi con la forza, che esercita controllo militare su di essi ma che non riconosce alcuna libertà personale, cittadinanza o partecipazione politica a chi vi è nato e vissuto, formalizza e rafforza, purtroppo, un vero e proprio sistema di discriminazione razziale che non può essere definito altrimenti se non come apartheid. Le reazioni palestinesi a questa prospettiva sono state varie, a volte quasi rassegnate e a volte vigorose. È il caso delle mobilitazioni del movimento Palestinian Lives Matter, che ha protestato contro l’occupazione e contro le uccisioni indiscriminate di palestinesi dopo la morte di Iyad al-Hallaq, un ragazzo autistico a cui la polizia israeliana ha sparato a sangue freddo perché lui, spaventato, non ha risposto ad un controllo di sicurezza. Rappresentano un bel segnale anche le manifestazioni di cittadini israeliani che, a Tel Aviv come in altre città, sono scesi in piazza per ribadire il loro rifiuto del rafforzamento dell’occupazione e il loro desiderio di una pace giusta. A onor del vero, però, va sottolineato che queste posizioni sono attualmente estremamente minoritarie in Israele e la deriva in senso identitario, sovranista ed etnicista dello Stato e del governo appare sempre più consolidata. Anzi, c’è di più: parrebbe che se, allo scadere del primo luglio, gli scenari di annessione più vasti non si verificheranno (in favore di atti più simbolici e ridimensionati di riconoscimento di alcune colonie, comunque illegittime per il diritto internazionale), non sarà grazie alle proteste degli israeliani democratici, ma a causa proprio dei nazionalisti ebrei di estrema destra, che rifiutano ogni compromesso e piano che preveda un riconoscimento, implicito o esplicito, di qualsiasi sovranità ai palestinesi. La impasse nella quale Israele è caduta da decenni, che consiste nel non voler scendere a compromessi né con sé stessa né con altri in termini di sovranità territoriale e nella definizione etnica di Stato Ebraico, è sempre più evidentemente la causa di una pericolosa stagnazione del processo di pace, che potrebbe tradursi a brevissimo nel suo definitivo fallimento. È per questo che la situazione israelo-palestinese continua a riguardarci, oggi più che mai, non solo come “questione morale dei nostri tempi”, come la definiva Nelson Mandela, ma anche a causa delle ripercussioni per la pace e l’equilibrio mondiale delle politiche autocratiche delle grandi potenze coinvolte -Israele e USA in prima linea, ma anche i paesi arabi, la Russia e l’Iran sullo sfondo. Non è un segreto che Trump, Netanyahu, Putin e non solo osteggino apertamente ogni forma di multilateralismo, indebolendo le istituzioni internazionali e prediligendo azioni politiche bilaterali o addirittura completamente autonome. Ne sono una prova le recenti sanzioni promulgate dall’amministrazione Trump nei confronti della Corte Penale Internazionale dell’Aja che sta indagando sui crimini di guerra statunitensi in Afghanistan: un gesto gravissimo ma tutto sommato coerente, dato che alla Corte gli USA e Israele non hanno mai aderito, non accettando di dover sottostare a leggi o indagini di istituzioni sovranazionali nate per garantire giustizia e rispetto dei diritti umani. Il ruolo dell’Europa, e in definitiva di noi comuni cittadini, è in questa prospettiva sempre più cruciale: se pochi ma influenti paesi tentano di delegittimare gli sforzi internazionali per la pace, la giustizia e la lotta ai cambiamenti climatici, è evidente che l’Unione Europea deve impegnarsi con determinazione e coraggio ad assumere la guida di queste sfide fondamentali per il futuro dell’umanità. Ogni riflessione, mobilitazione e pressione dal basso da parte dei cittadini può fare la differenza, come nel caso degli appelli che già a maggio hanno spinto 70 parlamentari italiani a chiedere al Governo italiano di impegnarsi a condannare e scongiurare l’eventualità dell’annessione. Sperando che non sia troppo tardi, continuiamo a sensibilizzarci e a costruire percorsi di pace possibili. Associazione Pace per Gerusalemme Forumpace Trentino Oggi, 15 maggio, ricordiamo la Nakba ("catastrofe" in arabo). 72 anni fa centinaia di migliaia di palestinesi furuono costretti a lasciare le loro case e a non potervi fare più ritorno, diventando profughi. Molti di loro hanno trasmesso questa condizione ai loro discendenti, profughi da generazioni e costretti a vivere nei campi. Handala è uno di loro. Questo bimbo di 10 anni esce dalla penna di Naji al-Ali, disegnatore palestinese, che decide di rappresentarlo scalzo, povero, sempre girato con le mani dietro la schiena, come segno di dissenso verso accordi politici ingiusti. Naji al-Ali dichiarò che Handala avrebbe mostrato il suo volto solo quando sarebbe potuto tornare in Palestina. Purtroppo l'artista morì assassinato dal Mossad a Londra. Questa giornata segna l'inizio della tragedia di un popolo, ma abbiamo la speranza che un giorno Handala si possa girare e sorriderci.
Pubblichiamo di seguito l'email che abbiamo ricevuto da Patrizia Cecconi, che ha promosso il progetto che vi abbiamo presentato nel precedente post. Ci aggiorna sull'esito della campagna di raccolta fondi e sulla situazione legata all'emergenza Covid a Gaza. Ogni piccolo contributo è importante perchè può fare la differenza.
"Care e cari che avete contribuito alla raccolta fondi per il progetto "Mascherine per Gaza", con questa mail vi forniamo gli aggiornamenti circa il progetto e l'attuale situazione a Gaza. 1) L'obiettivo dei 7.000 euro è stato raggiunto e superato grazie a tutte e tutti voi. 2) Molte persone che non conosciamo hanno contribuito mostrando fiducia nei nostri confronti e, cosa più importante, solidarietà col popolo di Gaza. Grazie di cuore. 3) Le mascherine hanno già raggiunto diverse centinaia di persone e nei prossimi giorni la consegna sarà completata. Idem saponi e igienizzanti. 4) Stiamo inviando i bonifici giorno per giorno in concomitanza con la produzione e distribuzione del materiale. 5) Dapprima ci erano stati chiesti i saponi ma poi, per la situazione particolare in cui si vive a Gaza ci è stato chiesto se al posto del sapone potevano avere i liquidi igienizzanti e se potevamo fornirgli anche i guanti sanitari. Abbiamo accolto la loro richiesta e se dovremo mandare qualche centinaio di euro in più potremo farlo perché la raccolta è andata molto bene. 6) Nei prossimi giorni avremo la lista completa dei beneficiari e altre foto - discrete - del momento della distribuzione. Ho chiesto di non porre nessuno sotto l'obiettivo per essere fotografato come se dovesse dirci grazie, ma di inviarci solo immagini che documentino la distribuzione. 7) Le foto che vi allego sono quelle del laboratorio Maraky edi alcuni beneficiari delle prime mascherine. Alcune scattate oggi e altre nei giorni scorsi. Non volevamo che mettessero il logo dell'associazione sui pacchi ma ci hanno risposto che è un modo per garantire il buon esito del finanziamento e non potevano farne a meno. Inoltre il nostro referente (Sami Abuomar) ci ha scritto che le mascherine non si trovano e quindi molti, compresi i panificatori che vedete in foto, lavoravano senza. La cosa ci sembra strana perché avevamo letto su qualche giornale mainstream di altre sartorie che stavano virando la propria produzione verso camici, tute e mascherine. Forse non si trovavano a prezzi accettabili, non sappiamo, ma comunque siamo contenti di aver potuto fare una piccola cosa positiva grazie alla ditta Maraky che ci ha venduto le mascherine al costo equivalente a circa 25 centesimi di euro. 8) vi copio il link ad un articolo in cui potrete leggere la storia di Soad, la fondatrice della Maraky company. Una storia molto simile, purtroppo, a quella di altre palestinesi rimaste vedove giovanissime, come lei, per mano israeliana. Soad non si è arresa e, paradossalmente, proprio questo virus killer ha dato a noi la possibilità di conoscerla e di darle una mano. Qui trovate la sua storia https://www.pressenza.com/it/2020/04/gaza-lei-si-chiama-soad-e-produce-mascherine/ 9) il contagio a Gaza sta crescendo ma limitatamente. Le persone poste in quarantena cautelativa sono molte, al momento sono più di mille, ma ad oggi di infettati ce ne sono stati 13, di questi ne sono guariti 8 e sono stati dimessi dagli ospedali e mandati in quarantena cautelativa. Altri 5 sono ancora in ospedale ma ci dicono che non hanno sviluppato la malattia in modo grave. Se si riesce a contenere il contagio significa non far scoppiare gli ospedali e poter curare adeguatamente quelli che ne hanno bisogno. Consideriamo che in tutta la Striscia ci sono - per due milioni di abitanti - solo 87 posti di terapia intensiva. Non va meglio in Cisgiordania dove ce ne sono 217 e molti più infettati. Possiamo solo sperare che anche lì in contagio si fermi. Veniamo ora alla raccolta fondi. La cifra raccolta grazie a voi che ci leggete e alle altre e altri donors di cui purtroppo abbiamo solo il nome nell'accredito bancario, al momento ha raggiunto 9.075 euro e, date le numerose richieste che ci arrivano da Gaza, stiamo decidendo di usare le eccedenze nel modo seguente: a) una parte in solidarietà con altre associazioni e precisamente: Gazzella, rispondendo all'appello per acquisto medicinali e altro materiale sanitario, e NWRG-newweapons research group, per finanziare l'acquisto di un ecografo per il reparto maternità dello Shifa Hospital di Gaza city. b) una parte più consistente, orientativamente intorno ai 1.600 euro, per l'acquisto di beni alimentari di produzione locale (sostenendo in tal modo i piccoli agricoltori gazawi) secondo il progetto presentatoci dall'associazione Herak Youth Center di Al Zawaida (vicino Nusseirat al centro della Striscia) che conosciamo bene e di cui apprezziamo, oltre alla serietà e alle competenze, la qualità del lavoro che portano avanti con i bambini. Di quanto acquistato e distribuito, sempre alle famiglie maggiormente svantaggiate, avremo adeguata documentazione. Se volete saperne di più circa l'associazione Herak potete andare qui: http://www.herak-youth.org/ Per il momento è tutto, spero di essere stata esaustiva e di non aver dimenticato niente e questo significa che il prossimo aggiornamento non supererà le tre righe ;) Vi auguro delle buone giornate, vi ringrazio a nome dei destinatari oltre che della nostra associazione e resto a disposizione per qualunque chiarimento. Patrizia Cecconi" Siamo stati di parola. Per dare concretamente seguito al nostro appello a non lasciare solo il popolo palestinese durante la pandemia, siamo stati felici di aderire alla raccolta fondi straordinaria lanciata dall’Associazione Oltre il Mare. Il progetto si propone di dotare, in tempi rapidi, le famiglie più indigenti di Gaza di materiale sanitario di base, ovvero mascherine, saponi e igienizzanti. Anche in questa situazione di emergenza è importante sostenere l’economia locale. La scelta dell’Associazione Oltre il Mare non è quindi quella di far arrivare il materiale sanitario dall’estero, anche perché la consegna sarebbe probabilmente impedita dal governo israeliano, ma al contrario di finanziarne la produzione in fabbriche e stabilimenti della Striscia di Gaza. Quella che vedete in foto è Soad Kalub, che dirige l’azienda artigianale Maraky, una delle poche sartorie specializzate nella produzione di camici, tute ospedaliere, mascherine chirurgiche e simili. Nonostante la distruzione della sua precedente azienda durante un bombardamento, Soad continua a portare avanti la sua attività, garandendo emancipazione economica ad un gruppo di donne. Alleghiamo la scheda del progetto, certi che anche voi vogliate far sentire la vostra vicinanza alla Palestina. PER SOSTENERE IL PROGETTO VI INVITIAMO A FARE UN BONIFICO BANCARIO NEL C/C INTESTATO A: Associazione Oltre il Mare presso Banca del Fucino codice Iban: IT83 N031 2403 2170 0000 0233 534 CAUSALE OBBLIGATORIA: progetto mascherine per Gaza
In questi giorni la nostra associazione, molto colpita dalla solidarietà del popolo palestinese verso l'Italia, ha deciso di inviare questa lettera agli organi di informazione. Vogliamo condividerla con voi.
In questi giorni così difficili per l’Italia sembra quasi impossibile potersi immedesimare in chi si troverà ad affrontare l’epidemia in una situazione umanitaria e sanitaria già allo stremo. Eppure, le preoccupazioni di chi come noi ha contatti e amicizie in paesi martoriati dalle guerre e dalla povertà sono più alte di sempre, ma è vero anche il contrario. Noi di Pace per Gerusalemme, come molti altri in Italia, abbiamo ricevuto dalla Palestina, nelle scorse settimane, decine di messaggi, email e video di solidarietà e vicinanza al nostro Paese. Il popolo palestinese, pur nelle sue difficoltà, non si è dimenticato di noi e del nostro impegno solidale, restituendoci riconoscenza, calore e una reale vicinanza umana, tutt’altro che formale. Ora che il virus è diventato pandemia, sta a noi non voltarci dall’altra parte. La Cisgiordania e Gaza, già vessate dalle difficili condizioni economiche, appaiono fragili di fronte ai primi contagi, e a questo si sommano i drammi dell’occupazione israeliana. L'esercito israeliano controlla tutti gli ingressi alle città palestinesi e le principali strade della Cisgiordania, impedendo il movimento tra le città e verso i centri ospedalieri. Michael Lynk, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani per la Palestina, ha lanciato un allarme per la situazione sanitaria e umanitari per i quasi 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza, già priva di medicinali e di attrezzature. L’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ha dovuto sospendere a data da destinarsi le forniture alimentari di sussistenza e altri servizi fondamentali. Oltre a questo, purtroppo, non si fermano gli abusi, le violenze e le gravi violazioni dei diritti umani da parte di Israele. La ong israeliana B’tselem ha segnalato che il 26 marzo, nella comunità palestinese di Khirbet Ibziq nella Valle del Giordano, i funzionari civili e i militari israeliani hanno confiscato e distrutto tende, un generatore di corrente e altri materiali per costruire cliniche da campo e strutture per l’emergenza coronavirus. Mentre non si fermano le demolizioni di case e le politiche di annessione illegale delle terre palestinesi, l’impedire iniziative di primo soccorso durante una così grave pandemia si configura come un atto particolarmente disumano. L’associazione Pace per Gerusalemme, nell’augurare all’Italia una pronta uscita da questa crisi, fa appello al senso di giustizia e di solidarietà degli italiani, affinché anche in questo grave momento non si perda la propria umanità. Chiediamo perciò alle istituzioni politiche italiane, nazionali e locali, di attivarsi con gesti di solidarietà concreta ed anche di fare pressione sul governo di Israele affinché, a cominciare da questo delicato momento, inizi una politica giusta e solidale nei riguardi del popolo palestinese, cooperi con esso nella battaglia al covid 19 fornendo strutture e materiali per la protezione individuale e la cura degli ammalati. Israele, secondo il diritto internazionale, deve garantire alla popolazione palestinese l’accesso ad ospedali a chi ne ha bisogno. Andrà tutto bene se tutte e tutti avremo la possibilità di proteggerci e curarci, in Italia come nel resto del mondo. Restiamo umani. |