Eitan Bronstein Aparicio è un attivista, educatore e filosofo israeliano. Ha fondato l’ONG Zochrot e successivamente il progetto artistico-politico De-colonizer. Attualmente vive a Bruxelles con la moglie e il figlio. Lo abbiamo intervistato sulla situazione dell'attivismo pacifista israeliano contrario all'occupazione. D: Sembra che nella società israeliana le speranze di invertire la rotta politica si stiano dissolvendo: se è vero che le difficoltà economiche dovute alla pandemia hanno stimolato alcune proteste antigovernative, dall’altro lato il dibattito politico sulla pace e sull’occupazione langue, e molti attivisti pacifisti israeliani, tra cui te e la tua famiglia, hanno lasciato o stanno lasciando Israele. Puoi darci la tua impressione? R: Per rispondere a questa domanda devo parlare di diversi aspetti: il primo è un fenomeno sociologico, ovvero il sentimento diffuso di disillusione e disperazione che c'è ora in Israele. Negli ultimi decenni, praticamente da quando Bibi Netanyahu è al potere e in particolare negli scorsi 5-10 anni, la maggior parte della società israeliana ha iniziato a non credere più che si possa arrivare alla pace. Prima, quando un bambino nasceva, si augurava alla famiglia che non sarebbe andato a fare la leva militare perché non ce ne sarebbe stato più bisogno, ma ora questa frase non la pensa né dice più nessuno. Ora il pensiero comune è diventato: “questa terra è tutta nostra, gli arabi non ci possono stare e se la guerra è il prezzo da pagare lo pagheremo”. Al contempo, nella parte di società israeliana che crede che lo Stato dovrebbe essere per tutti, ebrei e palestinesi con uguali diritti, la speranza è ai minimi storici e nessuno ha fiducia che la situazione possa cambiare e migliorare. Guardiamo alle ultime elezioni per i cittadini israeliani [del marzo 2020, ndr]: non c’era un programma politico che promuovesse un’agenda sul futuro (giustizia sociale, accordi di pace, etc), il dibattito era sull’avere o non avere Bibi al governo. L'opposizione e il governo hanno più o meno lo stesso programma, non c'è una vera differenza tra la destra e quella che viene chiamata sinistra in Israele, infatti Benny Gantz ha alla fine accettato di costituire un governo di unità nazionale [che sarebbe dovuto decadere a ottobre 2020 lasciando il posto alla presidenza di Gantz, ndr]. Il partito arabo è in crescita, ma è marginalizzato e nessuno prende nemmeno in considerazione la possibilità di allearsi con questa coalizione. Io personalmente ho deciso di trasferirmi a Bruxelles per seguire mia moglie e il nostro bambino, perché vivere in Israele per 7 anni con la mia famiglia è stato difficile dal punto di vista politico, economico, ideologico. Per quello che mi riguarda ho lasciato fisicamente Israele ma continuo a seguire le cause in forme diverse, lavorando e impegnandomi ogni giorno su questa questione. Devo ammettere però che molte delle persone come noi, che non credono in uno Stato ebraico, hanno la sensazione di essere state sconfitte. L'idea stessa di poter vivere insieme ai palestinesi in Israele è stata sconfitta. Non crediamo più che questa situazione possa essere cambiata da dentro Israele: ad un certo punto l’idea dello Stato ebraico cadrà, ma non sarà grazie ad attivisti israeliani o palestinesi, bensì con una pressione dall’esterno. D: Hai parlato di pressioni esterne: in che modo suggerisci di tenere acceso il dibattito internazionale sulla Palestina anche all'interno delle nostre società, tra le persone? R: Credo che sia molto importante ogni lavoro fatto fuori Israele, rivolto alle istituzioni e alle persone -al governo italiano e al popolo italiano, per esempio- per alzare l'attenzione sulla situazione della colonizzazione della Palestina. So che purtroppo è difficile: la questione non è nell'agenda internazionale e non è facile portare l'attenzione dei media internazionali su questo argomento. Ma credo che ci siano ancora cose che le persone possono fare, soprattutto a partire dalle associazioni attive sui territori. La campagna del BDS, ad esempio, è molto importante. Credo che il BDS sia cruciale: dal punto di vista politico è la giusta via da perseguire per fare pressione su Israele dall'esterno, e abbiamo visto che è molto efficace. In Israele hanno dedicato un intero ministero [il Ministero degli Affari Strategici, ndr] con cospicui finanziamenti a combattere il BDS: il governo lo ritiene una minaccia notevole. Un altro aspetto importante è l'aspetto educativo e di sensibilizzazione delle campagne internazionali, che si dovrebbero basare su tre elementi fondamentali:
D: Qual è il ruolo dell'Unione Europea? Queste campagne popolari potrebbero far pressione sull’UE per cambiare la situazione? R: Sicuramente! Facendo pressione sull'UE, poi questa dovrà chiedere a Israele di rendere conto delle sue azioni, pena l’indebolimento o la cancellazione degli accordi economici. Abbiamo visto che le prese di posizione e le richieste europee sull’annessione hanno avuto un certo impatto sul governo israeliano. Inoltre, anche la Corte Penale Internazionale [oggetto di sanzioni da parte dell’amministrazione Trump, ndr] dovrebbe essere rafforzata, per poter processare i criminali di guerra israeliani. Le istituzioni internazionali che sono state attaccate e indebolite negli ultimi anni dovrebbero essere sostenute dall’Europa e a livello popolare, per poter agire. D: Negli scorsi mesi abbiamo visto alcune manifestazioni contro il piano di annessione di Trump. Ma cosa pensa la società israeliana di questo piano? R: Credo che la maggior parte degli israeliani non sia interessata alla questione. Bibi e i coloni lo sono, mentre le persone in generale pensano che sia semplicemente un regalo da parte di Trump. Io personalmente fin dall'inizio ho pensato che sarebbe stato un piano difficile da portare fino in fondo, e infatti la direzione è quella di attuare qualcosa di simbolico per confermare lo status quo dell’occupazione: fare degli statement, diffondere delle foto mentre in realtà continuano poco a poco le operazioni di demolizione delle case e di espulsione dei palestinesi. Cambiare sostanzialmente la situazione sul campo annettendo tutti i territori in una volta costerebbe troppo a Israele, senza contare che c'è un'opposizione abbastanza forte al piano anche da parte dell'estrema destra israeliana, e questo è problematico per il governo in termini di sostegno elettorale. I coloni infatti contestano il fatto che verrebbe annessa solo una parte della Cisgiordania e non tutta, o almeno non tutte le colonie. D: Una grande questione che è stata portata alla luce dal piano di annessione è quella relativa alla cittadinanza. R: Purtroppo a livello sociale e politico i palestinesi non sono più minimamente considerati come detentori di diritti di cittadinanza. Nell'area che dovrebbe essere annessa vivono decine di migliaia di palestinesi e Netanyahu ha già sottolineato che in caso di annessione essi non acquisiranno diritti da cittadini dello Stato d'Israele. Questo è stato dichiarato apertamente, ed è una dichiarazione da regime di apartheid. Chiaramente l'idea è quella di costringerli a lasciare le loro terre. Ci sono già piani per rimuovere i palestinesi dalle colline sud di Hebron e dalla Valle del Giordano, come testimoniano le demolizioni più vaste degli ultimi decenni, avvenute recentemente a Khirbet Hamsa al-Fawqa con la distruzione di più di 70 strutture e l’espulsione di 11 famiglie con 41 bambini.
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